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martedì 28 dicembre 2010

Vita coniugale e Cassazione penale: rischia condanna per maltrattamenti il coniuge che aggredisce anche verbalmente l'altro

Vita coniugale e Cassazione penale: rischia una condanna per maltrattamenti il coniuge che aggredisce anche verbalmente l'altro quando le minacce sono continue e rendono la vita "penosa" 

    Le continue aggressioni verbali all'ex coniuge possono portare alla condanna per maltrattamenti.

    È il principio stabilito nella sentenza n. 45547 resa in data odierna dalla sesta sezione penale della Suprema Corte che riporta Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti". Con la decisione in commento gli ermellini hanno, infatti, confermato la condanna nei confronti di un marito che durante gli incontri settimanali sottoponeva la ex moglie a continue offese rendendole "disagevole e penosa l'esistenza", oltre a non versare il mantenimento per la donna e figli.

    La sentenza della Cassazione penale nel confermare parzialmente quella della Corte d'Appello di Venezia, eccettuato il punto della continuazione del reato, ha statuito che "i comportamenti abituali caratterizzati da una serie indeterminata di aggressioni verbali ingiuriose e offensive possono configurare il reato di maltrattamenti. Nella specie tali condotte, costantemente ripetute, hanno evidenziato l'esistenza di un programma criminoso diretto a ledere l'integrità morale della persona offesa, di cui i singoli episodi, da valutare unitariamente, costituiscono l'espressione ed in cui il dolo si configura come volontà comprendente il complesso dei fatti e coincidente con il fine di rendere disagevole e per quanto possibile penosa l'esistenza della moglie".

    Lecce, 28 dicembre 2010

                                                                                                                        Giovanni D'AGATA

martedì 21 dicembre 2010

Mobbing in ambito penale: vessazioni sul luogo di lavoro integrano il reato di violenza privata


    Mobbing in ambito penale: le vessazioni sul luogo di lavoro integrano il reato di violenza privata 

    Da tempo ormai Giovanni D'AGATA componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" è impegnato nel Nostro Paese nella lotta contro il mobbing ritenendo comunque utile un intervento legislativo alla luce delle numerose decisioni delle corti di merito e quelle di legittimità spesso contraddittorie l'una con l'altra e quindi avvertendosi l'esigenza di porre ordine al marasma venutosi a creare in materia e soprattutto per fornire risposte concrete alle esigenze di giustizia dei lavoratori.

    Con l'interessante sentenza n. 44803 di oggi 21 dicembre 2010 che riportiamo in commento, la cassazione penale interviene nuovamente sulla questione della qualificazione giuridica delle vessazioni del capo nei confronti dei dipendenti (con atti moralmente violenti e psicologicamente minacciosi).

    Secondo la Suprema Corte la condotta vessatoria e denigratoria del datore di lavoro o del capo integra il reato di violenza privata e non di maltrattamenti in famiglia o di mobbing.

    Gli ermellini, hanno modificato riqualificandole secondo il suddetto reato di violenza privata le accuse di maltrattamenti di un capo officina. In proposito, si legge in sentenza, "sembra piuttosto correttamente configurabile, proprio attraverso una motivata valutazione ed apprezzamento della richiamata prova specifica, peraltro motivatamente segnalata nell'impugnata sentenza a ribadita conferma di quanto già dedotto in primo grado, nella condotta dell'imputato il reato di violenza privata continuata aggravata ex art. 61 c.p., potendo ricondursi ai puntuali episodi,contestati nell'imputazione cui si è fatto cenno, i caratteri di una condotta moralmente violenta e psicologicamente minacciosa, idonei a costringere il lavoratore a tollerare uno stato di deprezzamento delle sue qualità lavorative nel contesto di una condotta articolata in più atti consequenziali ad un medesimo disegno criminoso, con l'intuibile aggravante della commissione del fatto con abuso di relazioni di prestazioni d'opera".

    Lecce, 21 dicembre 2010

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA       
 
 

Automobilista che investe pedone rischia sospensione della patente anche se procede a velocità moderata e si ferma a soccorrerlo


L'automobilista che investe il pedone rischia la sospensione della patente anche se procede a velocità moderata e si ferma a soccorrerlo. 
 

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato con la sentenza n. 9021 del 16 dicembre scorso, respingendo il ricorso di un automobilista di Lecce che aveva investito un pedone sulle strisce pedonali.

Il trasgressore aveva sostenuto che il giorno dell'incidente procedeva in Lecce a velocità moderata e che si era subito fermato a soccorrere l'uomo investito.

Nella circostanza il pedone era rimasto gravemente ferito al volto e alla testa.

Ma i giudici respingendo le doglianze hanno sottolineato che "la sospensione della patente di guida ai sensi dell'art. 91 comma 4 t.u. 15 giugno 1959, n. 393 per un periodo massimo di due anni, in caso di investimento che abbia prodotto la morte o le lesioni personali gravissime o gravi, costituiva oggetto di un potere prefettizio tipicamente cautelare, autonomo rispetto all'esercizio dell'azione penale, il cui esercizio non presupponeva alcun accertamento di pericolosità del conducente, implicita nelle conseguenze causate dall'incidente".

Secondo Giovanni D'AGATA componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" la severa decisione dei giudici amministrativi si inserisce in un quadro normativo e giurisprudenziale di repressione degli illeciti sulle nostre strade imponendo ancora maggiori cautele da parte degli automobilisti.

    Lecce, 21 dicembre 2010

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA       

giovedì 16 dicembre 2010

Stop alla vendita di alcolici addizionati con caffeina

L'Agenzia per la sicurezza alimentare statunitense (Fda) propone di vietare la vendita di alcolici addizionati con caffeina: inducono comportamenti pericolosi. 

    Un mix se non letale, quantomeno da considerarsi pericoloso quello tra alcol e caffeina. Non è constatazione prettamente scientifica, lo sanno anche i nostri nonni, ma da quando alcune società produttrici di bevande hanno iniziato a pensare di miscelare le due sostanze per lanciare sul mercato questo tipo di drink di nuova generazione anche l'Agenzia per la sicurezza alimentare statunitense (Fda) ha segnalato a quattro aziende che la caffeina aggiunta alle loro bevande alcoliche è da considerarsi un additivo non sicuro.

    La procedura avviata dall'ente statunitense, infatti, prende spunto da un attento studio delle ricerche sugli effetti da assorbimento congiunto di alcool e caffeina che secondo la letteratura scientifica, senz'altro maggioritaria, possono indurre nell'individuo conseguenze e comportamenti pericolosi, come ad esempio intossicazione da alcol, violenza e soprattutto guida pericolosa che come è noto è tra le cause più alte di mortalità giovanile.

    V'è da specificare che la segnalazione non riguarda gli alcolici che contengono la caffeina solo perché presente naturalmente in uno o più ingredienti, per esempio l'aroma di caffè, ma quelli in cui viene artificialmente aggiunta che stanno diventando una moda tra i giovani al pari degli alcolpop e come questi venduti un po' dappertutto e senza alcun limite in lattine e confezioni dai colori sgargianti.

    Le analisi a base dell'allarme traggono spunto dalla circostanza che la caffeina può rallentare sino a mascherare indizi sensoriali che permettono a chi fa uso di bevande alcoliche di capire quando è il momento di smettere, inducendo, quindi, a un maggiore consumo delle stesse. Anche perché è noto che la caffeina non modifica in alcun modo il tasso alcoolemico nel sangue, e quindi non riduce i rischi e i danni per la salute associati all'abuso.

    Alcune di queste nuove bibite, contengono peraltro altre sostanze stimolanti, oltre alla caffeina, e la gradazione alcolica arriva sino al 12%, contro il 4-5% di una birra chiara.

    Poiché  non risulta che né l'Italia, né l'Europa abbiano ancora avviato indagini alimentari in merito, secondo Giovanni D'AGATA componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" non rimane che invitare a farne un uso limitatissimo, evitarne il consumo per chi deve mettersi alla guida di qualsiasi veicolo e monitorare il controllo della vendita ai minorenni che in quanto di alcolici rimane proibita.

    Lecce, 16 dicembre 2010

lunedì 13 dicembre 2010

Come avviene un normale caso di risarcimento danni dovuto ad incidente stradale

Il risarcimento danni dovuto ad un incidente stradale normale o meno avviene seguendo determinate regolate definite dalla vigente normativa. L'iter burocratico definisce che quando avviene un risarcimento danni bisogna iniziare una serie di perizie atte a scoprire chi ha causato cosa, e il tipo di danni che si sono avuti sia nei mezzi che nelle persone coinvolte.

Prendiamo per esempio il caso dell'investimento pedoni o comunque di altre vittime di incidenti stradali. La prima cosa che viene sempre fatta in questi casi è la perizia medico legale per scoprire gli effettivi danni subiti. Logicamente questa perizia non viene fatta subito dopo l'incidente ma qualche giorno dopo, questo perché una minima parte dei problemi esce subito dopo l'incidente, la maggior parte esce qualche giorno dopo con dolori e fastidi vari.

Per quanto riguarda invece il risarcimento per danni alle auto o altri tipi di mezzi, in questi casi vengono fatte delle perizie tecniche per scoprire innanzitutto come si è svolto l'incidente e poi i tipi di danni che gli automezzi e tutti i beni coinvolto hanno avuto.

by Mattia Cattelan - MG Web Solutions

sabato 11 dicembre 2010

Omicidio volontario per chi guida ubriaco? Deriva anticostituzionale del Sindaco di Firenze


Omicidio volontario per chi guida ubriaco? Deriva anticostituzionale del Sindaco di Firenze

Firenze, 11 Dicembre 2010. Il Sindaco di Firenze, in un incontro pubblico per ricordare un giovane ucciso da un motociclista ubriaco, si e' impegnato per una proposta di legge di iniziativa popolare perche' l'omicidio colposo per questi reati sia trasformato in volontario. "Sarebbe bello se Palazzo Vecchio -ha detto Matteo Renzi- fosse la sede dove venire a firmare per una modifica della legge".

Al di la' del sapore populistico a cui e' ispirata questa sortita, evidentemente per raccogliere consensi attraverso appelli alla pancia e non al cervello, il primo cittadino di Firenze dovrebbe a nostro avviso porre maggiore attenzione a cio' che dice: vuole forse il Sindaco cambiare la nostra Costituzione?

A parte il caso -improbabile pur se gia' previsto dalla legge- di chi, dopo essersi ubriacato, si mette volutamente al volante con l'intento di ammazzare qualcuno, trasformare la colpa (reato commesso ma non voluto) in dolo (reato che si e' appositamente voluto commettere) e' incostituzionale e viola i più elementari principi del diritto della tradizione giuridica occidentale: sorgerebbe una sorta di responsabilita' oggettiva che contraddice i principi garantisti della Costituzione in materia penale.
Il Sindaco avrebbe potuto proporre di inasprire le aggravanti, con sanzioni adeguate all'intensità della colpa... e strappare lo stesso applausi, ma forse per il nostro era troppo poco. 


Noi non vogliamo insegnare il mestiere di Sindaco a Matteo Renzi, ma come associazione di cittadini vittime delle politiche dell'amministrazione, avremmo gradito prendere atto di un maggior impegno nel prevenire le cause degli incidenti piuttosto che invocare leggi assurde, per esempio:
- le buche delle strade fiorentine, su cui l'amministrazione si dice impegnata... ma poco, visto che ci si continua a far male;
- le campagne di informazione su alcool e guida, che anche sappiamo esserci... ma poco, visto che i controlli di polizia per strada sono pochissimi.


Per concludere, un consiglio al Sindaco: per evitare di dire sciocchezze e aiutare concretamente i suoi amministrati a vivere meglio, cambi consulente sul codice della strada:
- prima le presunte carte false che il Comune di Firenze ha fatto per ottenere l'autorizzazione a piazzare autovelox li' dove non possono essere, da cui sono scaturite multe che superano di ben tre volte quelle fatte dalla precedente amministrazione (1).. vedremo come finira' con le nostre denunce in Procura e i ricorsi al giudice di pace;
- ora anche una proposta chiaramente incostituzionale e forcaiola per punire reati gia' ampiamente punibili...
... se il Sindaco vuole, siamo a disposizione dell'amministrazione.

(1) http://www.aduc.it/comunicato/autovelox+firenze+ultimi+giorni+fare+ricorso+contro_18331.php

COMUNICATO STAMPA DELL'ADUC
Associazione per i diritti degli utenti e consumatori
Email aduc@aduc.it
Tel. 055290606
Ufficio stampa: Tel. 055291408


Postato da ADUC su IL COMUNICATO STAMPA
del CorrieredelWeb.it

giovedì 9 dicembre 2010

Privacy e nullita' delle multe

Privacy e nullità delle multe per la mancata adozione del documento programmatico della sicurezza (privacy) da parte del Comune. Importante sentenza del Giudice di Pace di Bari 

    Tempo fa, addirittura il 09.03.2009 avevamo segnalato l'importanza dell'adozione da parte dei Comandi delle Polizia Locali, ma probabilmente anche di quelli di polstrada e carabinieri e comunque di tutti gli enti accertatori d'infrazioni, del documento programmatico di sicurezza per la tutela della privacy ai fini della validità degli stessi accertamenti e quindi dei verbali.

    Nel comunicato facevamo presente che da una semplice lettura del D. Lgs 196/03 il cosiddetto testo unico sulla "privacy" (Codice in materia di protezione dei dati personali) che disciplina la materia della raccolta dei dati personali, risultasse espressamente che i dati personali trattati in violazione della suddetta normativa sarebbero assolutamente inutilizzabili per qualsiasi fine e quindi anche per l'accertamento delle violazioni amministrative.

    Oggi Giovanni D'AGATA, Componente Nazionale del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti", non può non compiacersi nel segnalare l'importante sentenza del Giudice di Pace di Bari la n. 2309 del 11.03.2010 che riporta integralmente la motivazione che da tempo inseriamo nei nostri ricorsi in materia di multe e privacy.

    Nell'accogliere il ricorso di un automobilista avverso un verbale del comune di Valenzano ha ritenuto assorbente la motivazione relativa all'inutilizzabilità dei dati personali dell'opponente, condannando infine alle spese lo stesso ente.

    Ha sostenuto opportunamente il giudicante che "Il d. lgs. n. 196/03 impone a chiunque sia stabilito nel territorio dello Stato o comunque soggetto alla sovranità dello Stato e che effettui il trattamento di dati personali (art. 5) ivi compresi, quindi, gli enti pubblici, il rispetto di una serie di regole, volte a tutelare la privacy dei soggetti i cui dati vengono trattati, regole che vanno dalla tenuta di un aggiornato documento programmatico sulla sicurezza, al possesso di strumenti idonei a proteggere i dati da ingerenze esterne e, in generale, dal trattamento illecito degli stessi; dall'individuazione di un responsabile del trattamento, alla prescrizione di un'esplicita delega scritta da parte di quest'ultimo a chi poi tratti effettivamente i dati.

    L'art. 11, comma 2 del cit. decreto legislativo prevede poi espressamente l'inutilizzabilità dei dati trattati "in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali". Ebbene, nonostante l'esplicita contestazione sul punto da parte dell'opponente, il Comune di Valenzano non ha in alcun modo provato il rispetto delle regole basilari, qui testé richiamate, in materia di trattamento di dati sensibili.

    Ne deriva che illegittimamente - facendo uso di dati; che erano in realtà inutilizzabili - la Polizia Municipale del Comune di Valenzano ha individuato la proprietaria del veicolo con cui venne commessa l'infrazione per cui causa".


    Lecce, 9 dicembre 2010

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA      

martedì 7 dicembre 2010

Cassazione: licenziato in tronco chi si addormenta durante l'orario di lavoro

 Cassazione, è da licenziare in tronco chi si addormenta durante l'orario di lavoro 

    La sezione " Terza sezione penale " della Cassazione ha bocciato il ricorso del lavoratore e nella sentenza 43412 del 7 dicembre 2010 ha sottolineato che "l'essersi addormentato costituisce abbandono del posto di servizio".

    Il giudice di legittimità ha respinto il ricorso proposto da un agente della Polizia di Stato, che la Corte d'Appello di Milano aveva condannato per abbandono del posto di lavoro poichè, in servizio alla frontiera, si era allontanato per recarsi a riposare nel gabbiotto.

    In questo modo ha reso definitiva la condanna a quattro mesi di reclusione per abbandono di servizio nei confronti di Sabino G., 30enne agente di Polizia in servizio al valico di Zenna e addetto al controllo dei passaporti che, il 20 agosto del 2004, alle prime ore del mattino, era stato sorpreso addormentato nel gabbiotto di vigilanza.

    Per la Suprema Corte, "l'addormentamento, quando dipende da una libera scelta del soggetto e non da cause patologiche, è sempre un atto volontario" e, come tale, costituisce abbandono di servizio. Sabino G. era già stato condannato a quattro mesi di reclusione dalla Corte d'appello di Milano, nel novembre 2009, in violazione della legge 121 del 1981 poiché alle 6.50 del 20 agosto di sei anni fa "era stato sorpreso addormentato a bocca aperta nel proprio gabbiotto e non si era svegliato nonostante il rumore del passaggio dell'autovettura di servizio e nonostante che l'ispettore avesse aperto il vetro di separazione del gabbiotto".

    Invano il lavoratore ha rivendicato una sanzione minore sostenendo, tra l'altro, di non avere di non avere "abbandonato il posto di lavoro" cercando giustificare la propria condotta.

    La Suprema Cassazione ha infatti sancito che, non solo un tale comportamento indicava il venir meno al dovere generale legato alla tenuta della divisa, ma che "abbandona il servizio non solo colui che materialmente si allontana dal luogo dove il servizio deve essere prestato, ma anche colui che, pur presente nel luogo in realtà non lo presta. Colui che, peposto al controllo dei passaporti in una zona di frontiera, si addormenti nel relativo gabbiotto, certamente non presta il servizio che gli è affidato".

    Secondo Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" e fondatore dello "Sportello Dei Diritti", tale sentenza è certamente eccessiva anche perché mentre nelle grandi aziende americane si creano spazi perché i dipendenti possano schiacciare un pisolino pomeridiano, in Italia i dipendenti sorpresi a fare la siesta vengono licenziati ed addirittura è "Configurabile il reato d'abbandono del posto di servizio".

    Lecce, 7 dicembre 2010

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA                                                                                                          
 

lunedì 6 dicembre 2010

Sicurezza Lavoro: il privato risponde degli infortuni in casa

 Sicurezza sul lavoro: il privato risponde degli infortuni in casa 

    " Il privato, in qualità di committente di lavori edili da svolgersi nella sua abitazione, risponde di omicidio colposo qualora l'operaio da lui incaricato, in assenza di qualsiasi cautela relativa alla sicurezza, muoia in occasione del lavoro assunto".

    Lo ha stabilito la IV Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 42465 del 1° dicembre 2010, in merito alla morte di un operaio che, incaricato di svolgere dei lavori edili all'interno di un'abitazione privata, precipitava da un'impalcatura non munita di parapetti e in assenza di qualsiasi cautela atta a scongiurare i rischi di caduta dall'alto.

    Gli ermellini respingendo il ricorso del proprietario avverso le le sentenze di primo grado e secondo grado che disponevano una pena di otto mesi di reclusione, lo hanno considerato responsabile della morte di un operaio contattato per dipingere i soffitti del suo appartamento.

    La vittima, senza cintura di sicurezza e senza casco, era precipitata, da oltre 3 metri, dove lavorava su assi inchiodate, raggiungibili con una scala e prive di parapetto.

    I Giudici di legittimità, con la sentenza hanno affermato che in tema di sicurezza sul lavoro "riveste una posizione di garanzia il proprietario (committente) che affida lavori edili in economia a lavoratore autonomo di non verificata professionalità e in assenza di qualsiasi apprestamento di presidi anticaduta a fronte di lavorazioni in quota superiore ai metri due".

    Inoltre hanno sottolineato che, è errata la tesi in diritto secondo la quale "in caso di prestazione autonoma (d'opera) il lavoratore autonomo sia comunque l'unico responsabile della sicurezza".

    Spiegano i Supremi giudici come correttamente, nel caso di specie, la Corte d'appello abbia accertato con ragionevole certezza l'altezza del punto di precipitazione e l'identificazione della catena causale che lega la morte, conseguente alla caduta, all'assenza di presidi di sicurezza e alle omissioni poste in essere dal committente. con sentenza n. 24233 del 30 novembre 2010 sottolineando che "il risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale derivante dal demansionamento e dalla dequalificazione del lavoratore postula l'allegazione dell'esistenza del pregiudizio e delle sue caratteristiche, nonché la prova dell'esistenza del danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che, quanto al danno esistenziale, può essere fornita anche ricorrendo a presunzioni".

    Secondo Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" e fondatore dello "Sportello Dei Diritti", tale sentenza certamente allarga il diritto di tutela a garanzia della salute dei lavoratori e indica i paletti di una norma che, seppure tarata su diversi modelli di lavoro subordinato, esplica la sua funzione anche al di là del lavoro dipendente, come chiaramente indicato dall'articolo 7, statuendo una sorta di equiparazione tra lavoratori autonomi e subordinati.

    Lecce, 6 dicembre 2010

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA    

Gli incidenti stradali nei giorni nostri: cosa fare a riguardo

Secondo le ultime statistiche degli enti preposti alla sicurezza della strada, gli incidenti stradali negli ultimi anni non hanno avuto ne un calo ne un aumento. Si potrebbe dire che di incidenti stradali ce ne sono molti di meno, tuttavia quando avvengono, coinvolgono molte persone anche in modo molto grave.

Che avvenga un normale tamponamento tra automobili, un grave incidente con ribaltamento dell'automezzo oppure o investimento pedoni in città, l'iter da seguire dopo l'incidente è sempre lo stesso: utilizzare la constatazione amichevole, oppure chiedere il soccorso delle forze dell'ordine che daranno il via all'iter burocratico fatto di perizie e richieste da fare all'assicurazione coivolte.

Nel malaugurato caso che il colpevole dell'incidente stradale non abbia neanche l'assicurazione, il risarcimento delle vittime viene fatto ad opera del fondo per le vittime della strada, ovvero un forno istituito dallo Stato che definisce l'ammontare del risarcimento "pubblico".

Bisogna ricordare una cosa molto importante nel caso di incidenti stradali di un certo spessore, ovvero la perizia medico legale. Quando l'assicurazione deve sborsare il risarcimento effettivo, vengono sempre fatte delle visite mediche per scoprire l'effettivo ammontare dei danni, i quali poi verranno commisurati al giusto risarcimento danni.

by Mattia Cattelan - MG Web Solutions

domenica 5 dicembre 2010

Multe ingiuste? Non piu' quando la Prefettura è attenta ai termini.

Codice della Strada e ricorsi prefettizi ai verbali. Quando la Prefettura è attenta ai termini. Un altro interessante decreto di archiviazione, questa volta del Prefetto di Pisa, per il ritardo nei termini di trasmissione degli atti da parte dell'ente accertatore e nell'emissione dell'ordinanza – ingiunzione stabiliti in sessanta e centoventi giorni dagli articoli 203 comma 2 e 204 1bis del C.d.S. 

    La P.A. non sempre si dimostra scrupolosa nell'esaminare i motivi di ricorso gerarchico e perciò molte volte il cittadino è costretto a ricorrere all'Autorità Giudiziaria competente per vedere accolte le proprie ragioni.

    Tutto ciò non accadrebbe se come è successo con l'ordinanza di archiviazione di un verbale emessa dalla Prefettura di Pisa, su reclamo gerarchico disciplinato dall'art. 203 del Codice della Strada, i Prefetti e gli uffici all'uopo incaricati verificassero puntualmente ogni aspetto del ricorso, così evitando di intasare le aule giudiziarie dei Giudici di Pace e non si limitassero a dei "copia e incolla" di rigetto come sovente purtroppo continua ad accadere.

    Per queste ragioni Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di IDV e fondatore dello "Sportello Dei Diritti" porta all'attenzione della cittadinanza e dei media un recente decreto di archiviazione della Prefettura di Pisa a seguito di un ricorso predisposto dai consulenti dello "Sportello Dei Diritti" avverso un verbale elevato per superamento del limite di velocità rilevato con apparecchiatura elettronica.

    Questa volta però la Prefettura non è entrata nel merito del ricorso o della rilevazione dell'infrazione ed ha tuttavia evidenziato il superamento dei termini di cui agli articoli 203 comma 2° e 204 1bis del C.d.S. che stabiliscono in sessanta e centoventi giorni i limiti temporali entro i quali l'organo accertatore è tenuto a trasmette gli atti del procedimento e la Prefettura competente a decidere del ricorso stesso.

    Nel caso di specie, la Prefettura ha motivato l'archiviazione ritenendo peraltro che "nella fattispecie, la tardività della definizione del suddetto gravame non possa documentalmente giustificarsi in base ad obbiettivi tempi tecnici della fase endoprocedimentale" e pertanto ha ritenuto opportuno provvedere all'archiviazione del verbale.

    Lecce, 05 dicembre 2010                            

                              Giovanni D'AGATA

                                                        Componente del

                                                                          Dipartimento Tematico Nazionale

                                                                                "Tutela del Consumatore" 

sabato 4 dicembre 2010

Cassazione:risarcimento danno per demansionamento anche ricorrendo a presunzioni.

Cassazione:risarcimento del danno per demansionamento anche ricorrendo a presunzioni.

    La prova può essere fornita anche ricorrendo a presunzioni.

    Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con sentenza n. 24233 del 30 novembre 2010 sottolineando che "il risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale derivante dal demansionamento e dalla dequalificazione del lavoratore postula l'allegazione dell'esistenza del pregiudizio e delle sue caratteristiche, nonché la prova dell'esistenza del danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che, quanto al danno esistenziale, può essere fornita anche ricorrendo a presunzioni".

    I Giudici di piazza Cavour, respingendo le doglianze datoriali hanno rigettato la ratio della decisione del giudice del gravame secondo il quale riteneva erroneo il riconoscimento del danno da demansionamento in favore di un proprio dipendente perché non sorretto da idonea prova, hanno ribadito, richiamando la sentenza n. 4652/2009, che "in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell'art. 2103 c.c., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del relativo danno, avente natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto". Spiegano i Supremi giudici come correttamente, nel caso di specie, la Corte d'appello ha ritenuto che l'onere probatorio posto a carico del lavoratore può essere adempiuto, oltre che mediante prove di natura documentale e testimoniale, anche in via presuntiva. Detta dimostrazione può ritenersi assolta, secondo le regole sancite dall'art. 2727 c.c., "allorché venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto".

    Secondo Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" e fondatore dello "Sportello Dei Diritti", tale sentenza certamente una decisione esemplare che potrà invogliare i lavoratori vittime di abusi sul posto di lavoro e costituisce precedente persuasivo e da monito per tutti i datori di lavoro perché possano pensarci non una, ma cento volte prima di umiliare e vessare il proprio dipendente.

      Lo "Sportello dei Diritti" rimane a disposizione dei cittadini per fornire assistenza gratuita per verificare l'esperibilità di azioni di recupero.

    Lecce, 4 dicembre 2010

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA                                                                                                        

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  Sede Provinciale "Italia dei Valori" di Lecce – V. le Lo Re n. 22 – 73100 - LECCE  

venerdì 3 dicembre 2010

Anatocismo bancario, Cassazione buone news per i consumatori, cattive per le banche.

Anatocismo bancario, buone notizie dalla Cassazione per i consumatori cattive per le banche.

La prescrizione per richiedere gli interessi anatocistici decorre dalla chiusura del conto. 

    Le Sezioni unite civili della Corte di cassazione con la sentenza n. 24418 del 2 dicembre, hanno finalmente posto dei paletti sul termine decennale di prescrizione per richiedere alla banca gli interessi anatocistici indebitamente pagati.

    Secondo i Giudici della Suprema Corte la prescrizione decorre "dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto" ed inoltre sugli interessi maturati a debito del correntista non è legittima neppure la capitalizzazione annuale.

    Gli Ermellini hanno respinto anche il motivo incidentale presentato dal correntista che lamentava la misura degli interessi appicati negli anni dall'istituto di credito.

    "Sul punto della Prescrizione le Sezioni unite hanno chiarito una volta per tutte, dando più tempo ai clienti che presentano istanza per la resitutizione degli interessi anatocistici indebitamente versati che "dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui è stato estinto i1 saldo di chiusura dei conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati." Ma non basta. Sul fronte capitalizzazione degli interessi il Collegio esteso ha rafforzato un principio già sancito dal legislatore e secondo cui "l'interpretazione data dal giudice di merito all'art. 7 del contratto di conto corrente bancario, stipulato dalle parti in epoca anteriore al 22 aprile 2000, secondo la quale la previsione di capitalizzazione annuale degli interessi contemplata dal primo comma di detto articolo si riferisce ai soli interessi maturati a credito del correntista, essendo invece la capitalizzazione degli interessi a debito prevista dal comma successivo su base trimestrale, è conforme ai criteri legali d'interpretazione del contratto ed, in particolare, a quello che prescrive l'interpretazione sistematica delle clausole; con la conseguenza che, dichiarata la nullità della surriferita previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall'art. 1283 c.c. (il quale osterebbe anche ad l'eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna" fonte Debora Alberici.

    Secondo Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" e fondatore dello "Sportello Dei Diritti", tale sentenza certamente potrà invogliare migliaia e migliaia di correntisti a procedere per il recupero di quanto indebitamente percepito dalle banche in sede di capitalizzazione dgli interessi passi sui conti correnti.

      Lo "Sportello dei Diritti" rimane a disposizione dei cittadini per fornire assistenza gratuita per verificare l'esperibilità di azioni di recupero.

    Lecce, 3 dicembre 2010

giovedì 2 dicembre 2010

Circolazione stradale. Giro di vite della Cassazione penale sugli automobilisti indisciplinati

 Circolazione stradale. Giro di vite della Cassazione penale sugli automobilisti indisciplinati 
 

    Secondo la sentenza 42498 depositata il 1 dicembre 2010, risponde di omicidio colposo chi lascia la macchina in doppia fila con lo sportello aperto e provoca un incidente mortale.

    La Suprema Corte ha confermato la condanna di un automobilista romano per omicidio colposo, reato però nel frattempo estinto per prescrizione.

    Inutilmente l'imputato aveva tentato di difendersi smentendo il nesso causale tra l'aver lasciato la vettura in doppia fila e la morte del motociclista, che procedeva a forte velocità.

    I Giudici di Piazza Cavour hanno però respinto le doglianze dell'imputato ed hanno confermato la ratio della decisione del giudice del gravame sottolineando che tale la condotta di guida integra il reato di omicidio colposo.

    Secondo Giovanni D'AGATA, componente del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" la Suprema Corte si dimostra intransigente al punto che rischia una condanna per omicidio chi lascia l'auto in doppia fila provocando un incidente mortale.

    .Lecce, 2 dicembre 2010

                                                                                                                  Giovanni D'AGATA

                                                                                                              Dipartimento Tematico Nazionale

                                                                                                                         "Tutela del Consumatore" 

mercoledì 1 dicembre 2010

Cassazione lavoro: legittimo licenziamento disciplinare del lavoratore per scarso rendimento.


 Cassazione lavoro: legittimo il licenziamento disciplinare del lavoratore per scarso rendimento. 

    A stabilirlo è stata la Corte di cassazione con la sentenza 24361del 1 dicembre 2010.

    Il ricorso era stato presentato da un dipendente di una spa contro la decisione della Corte d' Appello di Brescia che non aveva accolto la sua richiesta di annullamento del licenziamento.

    Secondo gli ermellini è " Legittimo il licenziamento disciplinare del lavoratore che ha uno scarso rendimento tanto da provocare malumori nei colleghi, costretti a terminare le sue attività".

    La Società datrice di lavoro tra i motivi degli addebiti disciplinari aveva sostenuto che i suoi colleghi, avevano sempre completato i lavori tralasciati dal collega, manifestando malcontento per tale motivo.

    L'uomo dal canto suo, lamentava il fatto che, a fronte di vari piccoli episodi che ne dimostravano scarsa diligenza, la società aveva lasciato correre, passando poi alla sanzione disciplinare rilevando che dalle sue inadempienze non era scaturito un danno alla società.

      I Giudici di piazza Cavour, respingendo le doglianze del dipendente hanno confermato la ratio della decisione del giudice del gravame secondo il quale "è legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia risultato provato, sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente, ed a lui imputabile, in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferito ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione".

    Secondo Giovanni D'AGATA, componente del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" anche la Suprema Corte si dimostra intransigente sul rendimento sul posto di lavoro ponendo le basi per un giro di vite nei confronti di soggetti lavativi soprattutto quando il lavoro ricade sui colleghi. 

    Lecce, 1 dicembre 2010

                                                                                                                  Giovanni D'AGATA

                                                                                                              Dipartimento Tematico Nazionale

                                                                                                                         "Tutela del Consumatore" 
 

lunedì 29 novembre 2010

Cassazione rigorosa con evasori senza sconti: anche le attività illegali sono soggette a tassazione.

Cassazione rigorosa con gli evasori senza sconti: anche le attività illegali sono soggette a tassazione. 

    Anche la Suprema Corte si dimostra intransigente sull'evasione fiscale. Secondo la sentenza n. 42160 del 29 novembre 2010 della terza sezione penale risponde di evasione fiscale chi non dichiara i profitti derivanti dallo sfruttamento della prostituzione e rischiano una condanna per evasione fiscale i soggetti che non dichiarano i proventi derivanti dall'attività illecita di sfruttamento della prostituzione.

    I giudici di piazza Cavour, hanno respinto il ricorso di una donna condannata per non aver dichiarato, nel 2003, quasi 200mila euro di profitti derivanti dallo sfruttamento della prostituzione sottolineando che " I redditi così ottenuti sono comunque imponibili ". La tesi difensiva addotta dall''imputata si basava sul fatto che i redditi provenienti da attività illecita non potevano essere ritenuti assoggettabili a tassazione.

    I giudici nel respingere il ricorso, hanno invece ribadito che "secondo l'interpretazione autentica fornita dall'art.14 comma quarto della legge n.537 del 1993 con riguardo al testo unico sulle imposte dei redditi n.917 del 1986, tra le categorie dei redditi tassabili classificate nell'art.6, comma primo, devono intendersi ricompresi anche i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo. Risponde dunque del reato di cui all'art. 5 d.lgs. 74/2000 chi non dichiara i proventi derivanti dall'attività illecita di sfruttamento della prostituzione, al fine di evadere le imposte sui redditi.".

    Secondo Giovanni D'AGATA, componente del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" la rigorosa sentenza della cassazione penale ha infatti posto le basi per un giro di vite nei confronti dell'evasione fiscale senza sconti per nessuno.

    Lecce, 29 novembre 2010

                                                                                                                  Giovanni D'AGATA

                                                                                                              Dipartimento Tematico Nazionale

                                                                                                                         "Tutela del Consumatore" 
 

domenica 28 novembre 2010

Comune responsabile motociclo caduto in centro storico.

Il Comune è responsabile per la caduta da motociclo in centro storico.

I danni conseguenti agli incidenti determinati dalla negligenza dell'Amministrazione che ha la proprietà ovvero la disponibilità e il godimento del bene demaniale, in particolare di strada pubblica, allorché si verifichino nel custodire la res e/o nel fornire agli utenti adeguate segnalazioni devono essere risarciti dal Comune di competenza, in quanto sullo stesso gravano gli obblighi del custode.

Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di IDV e fondatore dello "Sportello Dei Diritti" segnala con soddisfazione il principio espresso con una recentissima pronuncia (Cass. Civ. Sez. III, sentenza 15/10/2010, n. 21328), che ha ribadito e precisato alcuni principi già enunciati in una sentenza di solo alcuni mesi prima (Cass. Civ. Sez. III, sentenza 22 aprile 2010, n. 9456).

La giurisprudenza si è occupata in numerosissime occasioni delle richieste di risarcimento per danni avanzate da cittadini nei confronti dell'Ente; si è parlato, in proposito, di responsabilità della P.A. per l'esistenza di "trabocchetti" o "insidie nascoste".

In particolare nella circostanza la Suprema Corte ha accolto il ricorso di un uomo che aveva chiesto di essere risarcito dal Comune per i danni subiti a causa di un incidente occorsogli cadendo dalla sua vespa, in una strada antica, sdrucciolevole e caratterizzata da numerosi avvallamenti, situata nel centro storico di un piccolo Comune siciliano.

I giudici di piazza Cavour hanno quindi accolto il ricorso sostenendo che le motivazioni muovono dalla constatazione che, in base all'art. 2051 del codice civile, incombe sul Comune sia l'obbligo di custodire e fare manutenzione sulla strada che quello di ridurre, in ogni modo possibile, il pericolo di incidenti, attraverso la segnaletica che evidenzi le condizioni della strada e/o mediante l'impiego di agenti di polizia municipale, come prescritto da diversi articoli del codice della strada.

Secondo quanto stabilisce l'art. 2051 c.c., del resto, spetta al Comune l'onere di provare che il danno è stato provocato dal caso fortuito ovvero, in tutto o in parte, dalla condotta colposa dell'utente.

Lecce, 28 novembre 2010

Giovanni D'AGATA

Dipartimento Tematico Nazionale

"Tutela del Consumatore"

sabato 27 novembre 2010

Cassazione: lecite telefonate private brevi dal cellulare aziendale

Cassazione: è lecito fare telefonate private brevi dal cellulare aziendale 

    La Cassazione torna ancora una volta sull'argomento stabilendo i paletti in cui il dipendente può utilizzare il cellulare aziendale per chiamate private.

    La sentenza è la n. 41709/2010 è della Corte di Cassazione Sesta sezione penale che indica le modalità di utilizzo del telefono in ufficio.

    Prima regola: poche chiamate e, soprattutto, brevi!

    Gli ermellini hanno precisato con la sentenza che sono ammessi anche sms ad amici sempre che siano numericamente contenuti e diluiti nel tempo.

    Il caso è scaturito da un procedimento che vedeva imputato per peculato e abuso d'ufficio il dirigente di un Ufficio tecnico comunale.

    L'imputato aveva utilizzato il cellulare aziendale per contatti privati ed aveva inviato 276 sms ad amici e fatto 625 telefonate con un costo complessivo di 75 euro.

    Questa spesa però era "diluita" in due anni e per questo l'accusa di peculato era stata archiviata dal gup.

    Insomma le telefonate erano state poche e anche i costi molto modesti.

    La Suprema Corte ha inoltre sottolineato che non sono stati configurati quindi "atti appropriativi di valore economico sufficiente per la configurabilita' del delitto di peculato".

    Il tecnico comunale aveva anche navigato in intenet ma il Comune aveva un abbonamento a costo fisso per la navigazione sul web.

    La sentenza della Cassazione secondo Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di IDV e fondatore dello "Sportello Dei Diritti" dimostra l'esistenza nell'ordinamento italiano dei rimedi e delle tutele alle vessazioni che molti lavoratori continuano a subire ed invita a non demordere chi si ritiene vittima d'ingiustizie ed illegittimità sul luogo di lavoro. 

    Lecce, 27 novembre 2010

                                                                                    Giovanni D'AGATA

                                                                             Dipartimento Tematico Nazionale

                                                                                         "Tutela del Consumatore" 

venerdì 26 novembre 2010

ZTL: multe nulle senza minima tolleranza temporale

Zone a Traffico Limitato e varchi elettronici. Annullabili le multe se non vi è un minimo di tolleranza temporale 

    Prendendo spunto ancora una volta dalle molteplici segnalazioni di cittadini multati, Giovanni D'Agata Componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti", continua a parlare del problema delle sanzioni elevati nelle Zone a Traffico Limitato per superamento del varco elettronico negli orari di limitazione del traffico.

    Un gran numero di automobilisti, infatti, sarebbe stato sanzionato a distanza di uno - due minuti  dall'orario previsto per l'apertura e per la chiusura alla circolazione degli autoveicoli tutti però convinti che, in realtà, il passaggio sarebbe stato effettuato immediatamente prima e solo per il tempo utile per effettuare delle incombenze rapide. Ciò a Lecce dove il sistema è stato installato da poco tempo così come in molti centri del Paese.

    Da un semplice esame dei verbali che ci sono stati posti all'attenzione si può, infatti, evincere come l'ora di accesso indicata negli stessi non presenterebbe la possibilità di uno scarto temporale minimo relativo alla possibilità di errore nella misurazione del tempo, così come avviene in materia di strumenti di rilevazione elettronica delle infrazioni, per esempio in tema di autovelox dove è prevista la tolleranza massima del 5 % rispetto alla velocità misurata per possibili errori del macchinario di rilevazione.

    Nei casi in questione, come detto, l'infrazione sarebbe stata rilevata solo pochi minuti dopo la limitazione al traffico rendendo così possibile un errore scusabile per la differente sincronizzazione degli orologi.

    In materia è già intervenuta qualche sentenza di merito tra tutte quella del 30 gennaio 2007, n. 9927 del Giudice di Pace Bologna, Sezione 4 Civile che ha sostanzialmente censurato il comportamento della p.a. che non abbia previsto un limite di tolleranza cronologico minimo per l'elevazione delle infrazioni presso i varchi elettronici.

    Secondo il principio ivi contenuto, stante l'impossibilità di sincronizzare l'orologio dello strumento di rilevazione con quello di tutti gli utenti della strada, la mancanza nel sistema di accertamento elettronico delle infrazioni, di un dispositivo che consenta al conducente di conoscere se questo sia o meno in funzione, rende incolpevole l'errore di coloro che, privi di permesso, entrano nella Ztl, pressappoco negli orari di attivazione o di disattivazione, in quanto l'erronea convinzione che il sistema elettronico non sia ancora o non sia più acceso, è pienamente giustificata dalla minima differenza che esiste tra l'orario del timer dell'apparecchiatura di rilevamento, poi riportato sul verbale d'accertamento e quello indicato dall'orologio su cui il cittadino fa affidamento. 

    Lecce, 26 novembre 2010

                                                                                    Giovanni D'AGATA

                                                                             Dipartimento Tematico Nazionale

                                                                                         "Tutela del Consumatore" 
 

martedì 23 novembre 2010

Nulle multe in ZTL se la segnaletica non è sufficientemente visibile.

dimensionali e di collocazione previste dal regolamento attuativo del Codice della Strada.

  Quanti automobilisti si sono visti notificare multe per violazione al codice della strada per aver transitato nella zona a traffico limitato di un qualsiasi comune senza essersi accorti della presenza del varco e della segnaletica ivi apposta?

Accade, infatti, che decine e decine di automobilisti, questa volta transitati nella Z.T.L. del centro storico di Lecce in orario serale, ci hanno giurato non solo di non essere a conoscenza dell'area di circolazione ridotta nelle ore notturne, ma soprattutto di non aver visto il segnale all'ingresso delle stesse.

E così  Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori nonché fondatore dello "Sportello dei Diritti" si è recato di sera presso alcuni di tali varchi ed ha potuto verificare che in effetti gli stessi non sarebbero inequivocabilmente visibili e che la segnaletica non rispetterebbe tutte le prescrizioni previste agli articoli 79 e 80 del Regolamento d'attuazione del C.d.S. con ciò rendendo pressoché non colposo il comportamento degli automobilisti in transito dal punto di vista della personale responsabilità per la presunta violazione del Codice della Strada con ciò rendendo legittimo il ricorso per l'annullamento di tutte le multe così rilevate.

Anche perché  non si può attribuire la responsabilità di un'infrazione se non si dimostra la colpa dell'automobilista che in questo caso sarebbe esclusa per non aver visto la segnaletica non conforme alle prescrizioni di legge o regolamentari.

In materia di visibilità dei segnali e della necessità della preventiva individuabilità dei mezzi di rilevamento elettronico sono già intervenute delle sentenze che rifacendosi ai dettami del  legislatore prima e alla predominante Giurisprudenza di legittimità, hanno ripetutamente posto l'evidenza sulla necessità di dare informativa agli utenti della strada circa l'esistenza dei divieti e l'utilizzo degli strumenti di rilevamento elettronico, informativa di carattere preventivo che consista in una divulgazione con  i requisiti della congruità, dell'idoneità e della correttezza.

Secondo il legislatore e per la giurisprudenza maggioritaria, la segnaletica deve essere sempre idonea per dimensionamento, visibilità, leggibilità  e posizionamento e che la violazione di uno solo di questi parametri può provocare l'illegittimità dell'accertamento secondo prudente apprezzamento.

I cartelli verticali dei segnali posti all'ingresso dei varchi della ZTL sarebbero sottodimensionati, in particolare di dimensioni "55x55 " cm invece che "75x125" e "75x75" cm cioè "non facilmente visibile in modo particolare nelle strade poco illuminate quale quelle in esame antistanti il centro storico".

E non solo l'art. 79 del Reg. d'attuazione del C.d.S. prevede espressamente che "Sullo stesso sostegno non devono essere posti segnali con caratteristiche di illuminazione o di rifrangenza differenti fra loro" mentre è sufficiente visionare la fotografia allegata scattata in ora notturna che la segnaletica oltrechè non essere sufficientemente visibile è anche diversamente rifrangente.

    Lecce, 23 novembre 2010

                                                                                    Giovanni D'AGATA

                                                                             Dipartimento Tematico Nazionale

                                                                                         "Tutela del Consumatore"

lunedì 22 novembre 2010

Punibile senza sconti chi picchia il partner davanti ai figli

Punibile senza sconti chi picchia il partner davanti ai figli

Anche assistere all’aggressione configura il reato di maltrattamenti non solo nei confronti della vittima, ma anche verso i figli minori

Lo ha stabilito la Quinta Sezione penale della Cassazione nella sentenza 41142 del 22 novembre 2010. che di fatto ha respinto il ricorso di un uomo condannato per maltrattamenti ai danni della moglie e dei figli. L’imputato aveva proposto appello avverso la condanna nella parte relativa ai maltrattamenti sui figli poichè, i piccoli non erano stati direttamente vittime ma si sarebbero limitati ad assistere alle violenza dell’uomo. Gli ermellini rigettando la tesi dell’imputato, hanno ricordato che “ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 572 del codice penale “ lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all'interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere dei soggetti attivi, i quali ne siano tutti consapevoli, a prescindere dall'entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi.”

Per Giovanni D’Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di IDV e fondatore dello “Sportello Dei Diritti” la decisione in esame è importante anche perchè l’ambiente domestico è un luogo privilegiato di dinamiche di violenza nei confronti delle donne e dei minori. Da ora in poi il partner violento e persecutorio non sarà più libero di comportarsi come gli pare verso la famiglia e non utilizzerà i minori quale elemento di ulteriore controllo sulla vita dell’altro partner.

Lecce, 22 novembre 2010

Giovanni D’AGATA

Dipartimento Tematico Nazionale

“Tutela del Consumatore”

sabato 20 novembre 2010

Cassazione: lecito spiare i dipendenti

Cassazione: lecito spiare i dipendenti

E' lecito spiare i dipendenti. Lo ha stabilito la Cassazione Sezione lavoro confermando la legittimità del
licenziamento per giusta causa, inflitto al direttore di una catena di supermercati Standa di Messina, sorpreso
con controlli occulti a prelevare merce dagli scaffali con gli scontrini riciclati. Per la Suprema Corte, "sono
legittimi i controlli posti in essere dai dipendenti di agenzie investigative che operano" spiando "come normali
clienti e non esercitano alcun potere di vigilanza e controllo". Inoltre fanno sottolineato che "le norme poste
dagli art. 2 e 3 della legge 300 del 1970 a tutela della libertà e dignità del lavoratore, delimitando la sfera
di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei suoi interessi, con specifiche attribuzioni
nell'ambito dell'azienda, non escludono il potere dell'imprenditore di controllare direttamente o mediante la
propria organizzazione gerarchica l'adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze
specifiche dei dipendenti, ciò indipendentemente dalle modalità del controllo che può legittimamente avvenire
anche occultamente senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione dei rapporti, né
il divieto di cui all'art. 4 della legge del 1970 riferito esclusivamente all'uso di apparecchiature per il controllo a
distanza".
Oltre modo la Cassazione si allinea al giudizio di merito che aveva fatto notare come "la posizione di prestigio
del dipendente (direttore del supermercato)) all'interno della struttura commerciale, avrebbe dovuto costituire
esempio di correttezza e professionalità per i dipendenti a lui gerarchicamente subordinati".
Quanto accaduto, secondo Giovanni D'Agata, Componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela
del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti", pur non essendo collegato ad
un'espressa previsione di legge, indica con ogni probabilità che quell'impresa, come tante altre, non ha esposto
con chiarezza un proprio regolamento e non ha dunque chiarito cosa i dipendenti possono attendersi e su cosa
possono contare sul posto di lavoro. Si può ricorrere alla legge ma talvolta basta ricorrere al buon senso. E
questo non vale solo per il dipendente licenziato dopo essere stato spiato... e comunque "la vigilanza sul lavoro,
ancorché necessaria nell'organizzazione produttiva" va "mantenuta in una dimensione 'umana' e cioé non
esasperata dall'uso di tecnologie o di altro" che violano la privacy del dipendente stesso".
LE DECISIONI E I PARERI DEL GARANTE
Sì all'uso delle impronte digitali dei lavoratori ma con precise garanzie
Internet: proporzionalità nei controlli effettuati dal datore di lavoro
Illecito spiare il contenuto della navigazione in internet del dipendente
Esami di tossicodipendenza sul posto di lavoro
No all'uso delle impronte digitali per controllare le presenze dei lavoratori

Lecce, 20 novembre 2010

lunedì 15 novembre 2010

Mobbing: quando la Giustizia potrebbe alleviare il dolore e le sofferenze del lavoratore mobbizzato.

Mobbing: quando la Giustizia potrebbe alleviare il dolore e le sofferenze del lavoratore mobbizzato.

Il caso emblematico dell'ing. Elisabetta Ferrante  

    Dopo l'intensa vicenda personale di mobbing di Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di IDV e fondatore dello "Sportello Dei Diritti", avevamo sentito e manifestato l'obbligo morale e civile della necessaria difesa dei più deboli, convinti che la Giustizia, quella terrena, un'utopia ormai per tanti, se ci si crede veramente, se si è testardi, prima o poi arriva se si continua a combattere, sino ad esperire ogni livello che il Nostro ordinamento nazionale e sovranazionale ci consente.

    Giustizia che dopo un lungo corso durato circa dieci anni pareva arrivata a destinazione anche per l'ing. Elisabetta Ferrante, dipendente di una multinazionale che con una storica sentenza della Corte di Cassazione si era vista riconoscere le proprie ragioni dopo una tormentatissima, per non dire tragica, storia personale di nudo e crudo "mobbing" e di altrettante drammatiche battaglie nelle aule giudiziarie del nordovest del Paese.

    Quasi mai, avevamo parlato, nonostante le decine, centinaia di denunce di singole tristi storie lavorative di vessazione e di violenza psicofisica che ci erano pervenute nel corso degli anni perché avevamo preferito agire nel silenzio dei tribunali che impone il rispetto del concetto stesso di Giustizia, ma la vicenda dell'ing. Ferrante non può non definirsi emblematica se non la si legge nell'ottica dell'ormai storica sentenza della Suprema Corte n. 22858 del 09.09.2008 che è stata persino oggetto di studio nella relazione tematica dell'Ufficio del Massimario e del Ruolo della stessa corte e che ha tracciato puntualmente i requisiti fattuali e di diritto affinché una condotta datoriale o del superiore gerarchico possa essere individuata come "mobbing" e quindi riconoscendone la sussistenza nei comportamenti subiti dalla lavoratrice ricorrente.

    Una sentenza che sostanzialmente ha confermato, smentendo persino altre decisioni, che un fenomeno complesso che tanti lavoratori subivano, a volte in silenzio, a volte provando a rivolgersi alla Giustizia senza esito, che veniva chiamato con il termine anglosassone "mobbing" esisteva e poteva essere meritevole di tutela da parte delle corti italiane.

    Ora, dopo che i giudici di piazza Cavour hanno cassato la sentenza della Corte d'Appello di Torino che aveva rigettato le (ritenute poi) legittime istanze della funzionaria rinviando la causa alla contigua Corte d'Appello di Genova per esaminare l'intera vicenda alla luce dei principi stabiliti nella famosa decisione, l'ing. Ferrante è all'ultimo passo.

    Ora, anzi dopodomani 17 novembre, manca poco ed abbiamo l'obbligo di continuare a credere nella Giustizia che potrà, anzi deve restituire congruo ristoro alle sofferenze e al dolore patito dalla lavoratrice e dai suoi cari.

    Non possiamo, quindi, che auspicare una decisione esemplare anche in questo caso, affinché costituisca precedente persuasivo e da monito per tutti i datori di lavoro perché possano pensarci non una, ma cento volte prima di umiliare e vessare il proprio dipendente.

    Lecce, 15 novembre 2010

                                                                                    Giovanni D'AGATA

                                                           Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore"

venerdì 12 novembre 2010

Genitori alunno disabile privato del sostegno hanno diritto al danno esistenziale

I genitori dell'alunno disabile privato del sostegno hanno diritto al danno esistenziale.

La scuola non può ridurre le ore per carenza di organico. 

Giovanni D'Agata, Componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" interviene in  materia del diritto all'educazione ed all'istruzione per i disabili  per segnalare la recentissima sentenza n. 2580 dell'11 novembre 2010 del Tar della Sardegna.

L'importante decisione fa seguito alla  sentenza n. 80/2010 della Corte costituzionale che aveva risolto il problema creato agli alunni con disabilità dall'art 2 commi 413 e 414 della Legge finanziaria  n. 244/08 fissando un tetto massimo al numero di docenti da nominare annualmente per il sostegno vietando contestualmente la possibilità di assegnare ore in aggiunta a quelle fissate in organico di diritto.

Con il principi stabilito dalla sentenza in questione, i giudici amministrativi hanno deciso che i genitori dell'allievo affetto da un grave handicap devono essere risarciti dei danni esistenziali se la scuola non assegna al minore le necessarie ore di sostegno.

Nel caso di specie il T.A.R. ha accolto il ricorso di due genitori contro il provvedimento con cui una scuola materna riduceva, fino a eliminarle del tutto, le ore di sostegno assegnate al figlio.

La coppia impugnava l'atto e chiedeva il risarcimento del danno. Con una statuizione antitetica rispetto ad alcune recenti pronunce di altre corti amministrative (tra queste Tar Campania 17532 del 24 settembre 2010), i giudici sardi hanno accolto entrambe le richieste e annullato il provvedimento, giudicato illegittimo in quanto "non può costituire impedimento alla assegnazione, in favore dell'allievo disabile, delle ore di sostegno necessarie a realizzare il proprio diritto, il vincolo di un'apposita dotazione organica di docenti specializzati di sostegno", anche perché la scuola può ricorrere "alla assunzione con contratto a tempo indeterminato di insegnanti di sostegno in deroga al rapporto docenti – alunni in presenza di handicap particolarmente gravi". Non solo. I genitori hanno "diritto al risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 cc, qualificabile nel caso come danno esistenziale." La corte ha chiarito che "il danno è individuabile negli effetti che la seppure temporanea, fino all'intervento di questo giudice, diminuzione delle ore di sostegno alle quali il minore aveva diritto, ha interrotto la piena continuità di sostegno al recupero ed allo sviluppo del disabile in situazione di gravità, integrando un arresto alla promozione dei suoi bisogni di cura, di istruzione e di partecipazione a fasi di vita "normale".

Il T.A.R. ha anche quantificato il danno nella misura di duemila euro a carico della scuola e nei confronti dei genitori del piccolo a titolo di risarcimento.

Lecce, 12 novembre 2010  

                                                                                        Giovanni D'AGATA

                                                                             Dipartimento Tematico Nazionale

                                                                                         "Tutela del Consumatore" 

giovedì 11 novembre 2010

Bagni alle poste e negli uffici aperti al pubblico per legge.

Bagni alle poste e negli uffici aperti al pubblico per legge.

 

Code interminabili, file estenuanti per gli utenti. Ordinaria amministrazione nella pubblica amministrazione, alle poste ed in tanti uffici, anche privati, aperti al pubblico, ma che succede se un qualsiasi cittadino o addirittura anziano ed incontinente deve andare al bagno. Non succede nulla se non che se la deve fare letteralmente "addosso" se non vuole perdere la preziosissima posizione faticosamente guadagnata anche se ha il ticket con il numero di prenotazione in mano.

Anche stavolta sono semplici cittadini a portare l'attenzione di Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di IDV e fondatore dello "Sportello Dei Diritti", su problematiche quotidiane dell'utenza che sarebbero di semplice soluzione solo se il legislatore avesse guardato con più scrupolo agli ostacoli quotidiani che il cittadino è costretto ad affrontare.

Ed ecco che nasce da qui una proposta che potrebbe diventare legge se solo vi fosse volontà politica generale e non solo di Italia dei Valori per cercare di alleviare un problema che se potrebbe far scappare qualche sorriso ai più, certamente non fa ridere chi quotidianamente per le proprie incombenze o una volta al mese per ritirare la pensione è costretto a non poter usufruire di un servizio che è stato generalmente previsto per legge, per esempio, per tutte le attività di ristorazione.

Ed allora, perché non obbligare tutti gli uffici aperti al pubblico, a cominciare dalle poste, di dotarsi della toilette?

Lecce, 11 novembre 2010

 

                                                                                    Giovanni D'AGATA

                                                                          Dipartimento Tematico Nazionale

                                                                                         "Tutela del Consumatore"

sabato 6 novembre 2010

Cassazione: evasione fiscale IVA punibile reclusione


    Anche la cassazione penale rigorosa con gli evasori: punibile con la reclusione il contribuente che non versa l'Iva se il comportamento si prolunga oltre il 27 dicembre dell'anno successivo a quello di riferimento 

    Anche la Suprema Corte si dimostra intransigente sull'evasione fiscale. Secondo la sentenza n. 38619 del 3 novembre 2010 rischia la reclusione da sei mesi a due anni chi non versa l'iva dichiarata, se il mancato pagamento si estende oltre il 27 dicembre dell'anno successivo a quello di riferimento.

    Per Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di IDV e fondatore dello "Sportello Dei Diritti" la decisione in esame è importante 6anche per il calcolo temporale del comportamento omissivo anche per la verifica di applicazione del beneficio dell'indulto.

     Il Tribunale di Ancona, infatti, aveva applicato questo beneficio nei confronti di un uomo che non aveva versato l'iva dichiarata nell'anno 2005. Mentre il Procuratore generale presso la Corte d'appello del capoluogo marchigiano aveva presentato ricorso affermando l'inapplicabilità dell'indulto, in quanto secondo la procura il reato si era consumato nel vigore della nuova normativa, la quale prevede, per coloro i quali omettono il pagamento dell'iva, un trattamento sanzionatorio equivalente a quello previsto per il sostituto che non versa le ritenute d'acconto.

    I giudici di piazza Cavour hanno quindi accolto il ricorso sostenendo che "per la consumazione del reato non è sufficiente un qualsiasi ritardo, ma occorre che l'omissione del versamento dell'imposta dovuta si protragga fino al 27 dicembre dell'anno successivo al periodo d'imposta di riferimento".

    Lecce, 5 novembre 2010 

Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori.

venerdì 29 ottobre 2010

Incredibile ma vero. Quando l' autovelox sbaglia.

Incredibile ma vero. Quando l'autovelox sbaglia. Una cittadina multata da due comuni diversi della provincia di Cosenza (Amendolara e Rocca Imperiale) per la stessa identica infrazione e con due verbali identici.

Incredibile ma vero il caso che è stato rappresentato a Giovanni D'Agata, Componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti".

Non è dato sapere se quello che stiamo per raccontare abbia dei precedenti a livello nazionale, ma tanto basta per rimettere ancora una volta in discussione la presunta infallibilità dell'autovelox o degli apparecchi di rilevazione elettronica della velocità in generale.

Nel caso in questione, la proprietaria di un'autovettura si è vista recapitare a distanza di pochi giorni l'uno dall'altro, due verbali perfettamente identici in quanto riportanti il superamento del limite di velocità e quindi la violazione dell'art. 142 comma 8 del Codice della Strada allo stesso giorno, alla stessa ora, nello stesso tratto di strada, alla stessa velocità rilevata e dallo stesso agente accertatore ed elevati dai Corpi di Polizia Municipale di due comuni diversi in particolare il Comune di Rocca Imperiale ed il Comune di Amendolara.

Chiaramente la cittadina ha pensato subito di contattare lo "Sportello dei Diritti" per farsi predisporre i ricorsi a questi a dir poco sorprendenti atti di accertamento, rilevando l'evidente e grave vizio di forma determinato da un cosiddetto "copia - incolla" da parte degli accertatori dell'infrazione anche perché non è dato sapere quale dei due verbali corrisponderebbe al fatto storico effettivamente rilevato.

E' palese, infatti, che la notifica dello stesso verbale da parte di due diversi Enti della P.A. abbia compromesso il "diritto alla difesa" costituzionalmente garantito all'art. 24 della Carta, non avendo, peraltro, la possibilità di conoscere con esattezza quale dovrebbe essere la presunta infrazione eventualmente da contestare essendo perfettamente identici i due verbali così come i fatti ivi riportati.

Lecce, 28 ottobre 2010

Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori

sabato 23 ottobre 2010

Sesso online e ragazze in webcam in cambio di soldi: Cassazione è sfruttamento della prostituzione



 Sesso on-line e ragazze in web-cam in cambio di soldi: secondo la Cassazione è sfruttamento della prostituzione  

    Un fenomeno in continua espansione il sesso in rete tramite web-cam. Un giro d'affari in vorticosa crescita in Italia come nel resto del mondo, ma la Corte di Cassazione con una decisione recente pone un argine, almeno dal punto di vista penale al sesso on-line a pagamento che vede coinvolte e sfruttate migliaia di donne in ogni luogo ed è per questo che Giovanni D'Agata, Componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" ritiene particolarmente significativo il pronunciamento in questione.

    Secondo la Suprema Corte è punibile per sfruttamento della prostituzione il soggetto reo di aver pagato per vedere prestazioni sessuali in videoconferenza così come chi offre il collegamento in rete ed i relativi.

    La Terza Sezione Penale della Cassazione, con la decisione in discussione ha, infatti, confermato la condanna inflitta dalla Corte d'Appello di Firenze nei confronti di un gestore di un nightclub, assieme alla sua segretaria e al responsabile della security.

    Gli imputati erano stati condannati per aver favorito e sfruttato la prostituzione attraverso questo tipo di esibizioni fatte nel locale da spogliarelliste ma avevano proposto ricorso contro il pronunciamento di merito argomentando che questo tipo di esibizioni non potevano rientrare nel reato di sfruttamento della prostituzione.

    Gli ermellini hanno motivato la decisione secondo il principio per cui le prestazioni sessuali eseguite in videoconferenza in modo da consentire al fruitore delle stesse di interagire in via diretta e immediata con chi esegue la prestazione, con la possibilità di richiedere il compimento di atti sessuali determinati, assumono il valore di atto di prostituzione e configurano il reato di sfruttamento della prostituzione.

    Si tratta di atti, dunque, che configurano il reato di sfruttamento della prostituzione a carico di coloro che abbiano reclutato gli esecutori delle prestazioni o ne abbiano consentito lo svolgimento creando i necessari collegamenti via Internet o ne abbiano tratto guadagno.

    Ma v'è di più. I giudici di piazza Cavour precisano che è da ritenersi irrilevante la circostanza che chi si prostituisce e il fruitore della prestazione si trovino in luoghi diversi, in quanto il collegamento in videoconferenza consente all'utente di interagire con chi si prostituisce in modo tale da poter richiedere a questi il compimento di atti sessuali che vengono immediatamente percepiti da chi ordina la prestazione sessuale a pagamento.

      Lecce, 23 ottobre 2010         

Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori


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venerdì 8 ottobre 2010

Autovelox, multa nulla in centro abitato se non c'è contestazione immediata


Autovelox, nulla la multa in centro abitato se non vi è la contestazione immediata. Nuovi spiragli per i contravventori. 

    La tesi sostenuta più volte da Giovanni D'AGATA, componente del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" secondo cui nei centri urbani è obbligatoria la contestazione immediata dell'infrazione per superamento del limite di velocità contestata a mezzo autovelox è confermata dalla recente sentenza 23 giugno 2010, n. 467 pronuncia del Tribunale di Viterbo che ha accolto l'appello proposto dal proprietario di un'autovettura riformando in questo modo la sentenza del giudice di pace impugnata, sulla base dell'assunto che, in base ad un'interpretazione sistematica della normativa di riferimento in particolare del comma 4, in maniera congiunta al comma 1 del medesimo articolo 4 della legge 1.8.2002, n. 168, qualora l'infrazione rilevata con apparecchiatura elettronica sia stata rilevata su strada urbana permane l'obbligo della contestazione immediata, pena l'inapplicabilità della sanzione.

    Tale principio scaturente ictu oculi dalla normativa in questione è spesso stato disatteso da buona parte della giurisprudenza, anche di legittimità che con decisioni spesso contrastanti si è occupata della materia.

    Infatti, la Corte di Cassazione in diverse decisioni (tra le pronunce più recenti si veda Cass. civ., sez. II, sentenza 30.4.2009, n. 10156, nonché Cass. civ., sez. II, 27.10.2005, n. 20873) ha sostenuto la superfluità della contestazione immediata dell'infrazione se rilevata con una delle apposite apparecchiature automatizzate, agganciando il principio - con un interpretazione singolare e restrittiva - al tenore letterale del quarto comma dell'articolo quattro della legge 1.8.2002, n. 168 che prevede in caso di utilizzo di autovelox o simili sistemi l'assenza dell'obbligo di contestazione immediata di cui all'articolo 200 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285.

    Tale orientamento, però ha finito con l'apparire quale un ulteriore contributo ai comuni e agli altri enti che utilizzano le cosiddette multe seriali al fine di "far cassa" anche all'interno dei centri urbani.

    La sentenza in discussione, secondo Giovanni D'AGATA, riporta la questione ad un riequilibrio e nell'ambito di un interpretazione che riteniamo sostanzialmente più corretta dell'intero impianto della normativa.

    Lecce, 08 ottobre 2010                        

Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori.

mercoledì 6 ottobre 2010

Giro di vite della Cassazione sui dispetti tra coinquilini

Cassazione penale. Risponde dei reati di deturpamento o imbrattamento di cose il vicino di casa dispettoso: giro di vite della Cassazione sui dispetti tra coinquilini 

    Farà  ridere i più l'epilogo di una classica vicenda tra dirimpettai, ma riderà di meno, senz'alcun dubbio, il cittadino che per reagire a dei torti subiti aveva sparso della terra sulle loro auto e per aver epitetato "vigliacchi" i vicini rischia di essere condannato a seguito di una sentenza della cassazione.

    La rigorosa sentenza della cassazione penale ha infatti posto le basi per un giro di vite nei confronti degli scherzi e dispetti tra condomini secondo Giovanni D'AGATA, componente del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti".

    Nel caso in esame, gli ermellini hanno deciso di annullare una sentenza di assoluzione del Giudice di Pace resa nei confronti di un vicino dispettoso.

    Come detto, il 32enne aveva sparso della terra sulle auto dei vicini per reagire ad un torto subito, che avevano provveduto a querelarlo sino farlo imputare per il reato d'imbrattamento e deturpamento di cui all'articolo 639 del codice penale e per il reato d'ingiuria avendoli apostrofati come "vigliacchi".

     Il Giudice di Pace aveva deciso per l'assoluzione "perchè il fatto non costituisce reato", poiché "la terra buttata sulle vetture avrebbe potuto facilmente essere rimossa e dunque non aveva scalfito i veicoli". Contemporaneamente l'imputato era stato assolto anche dall'accusa di ingiuria poiché secondo la corte di merito il termine "vigliacchi" sarebbe entrato nell'"uso comune".

    La Suprema Corte, investita da un ricorso ha annullato la decisione di merito rinviando la causa per un nuovo esame.

    I giudici di piazza Cavour hanno ritenuto "illegittima" l'assoluzione dall'accusa di imbrattamento e deturpamento "solo in base al dato inerente alla facile rimozione delle stesso elemento usato per imbrattare, vale a dire la terra sguinzagliata sui veicoli altrui", ciò che "resta sufficiente ad integrare la fattispecie criminosa - scrive la Corte - è proprio la condotta di materiale mutamento delle condizioni in cui il bene altrui si trovava, in modo da alterarne l'aspetto".

    Per quanto concerne il reato d'ingiuria, il giudice di legittimità sostiene che "una prassi o un uso comune del linguaggio non vale ad escludere l'offesa alla dignità e all'onore del soggetto passivo, trattandosi di termine ('vigliacchi') evidentemente dispregiativo".

    Lecce, 06 ottobre 2010                     

Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori.

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