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lunedì 28 febbraio 2011

Cassazione: basta alle auto in doppia fila

La Cassazione dice basta al malcostume di parcheggiare in doppia fila. Rischia il carcere chi sequestra  l'auto del vicino e non scende a spostarla 

L'autovettura parcheggiata in modo tale da impedire all'altro di uscire dal cortile condominiale. può portare alla condanna per violenza privata.

È il principio stabilito nella sentenza n. 7592 del 28 febbraio 2011, emessa dalla sesta sezione penale della Suprema Corte che riporta Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti"

Con la decisione in commento gli ermellini hanno, infatti, confermato la condanna nei confronti del proprietario dell'auto parcheggiata in cortile  che teneva "prigioniera" la vettura del vicino, che scende a spostarla soltanto dopo un'ora

Mentre il condomino "sequestrato" va risarcito, l'altro che se la prende comoda rischia pure trenta giorni di reclusione.

«Non trovavo le chiavi», si giustificherà davanti al giudice l'automobilista fin troppo disinvolto che neppure si affaccia dal balcone per scusarsi con il vicino.

La sentenza della Cassazione penale ha statuito che l'effetto pratico della condotta addebitata è impedire per lungo tempo al vicino di allontanarsi da casa come invece egli avrebbe voluto.

Lecce,  28 febbraio 2011

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA  

lunedì 21 febbraio 2011

Furti dalla culla. Sussiste il reato di sequestro di persona in concorso con la sottrazione di minore anche se la vittima è un neonato

Furti dalla culla. Sussiste il reato di sequestro di persona in concorso con la sottrazione di minore anche se la vittima è un neonato

    Scattano le manette per la finta infermiera che "rubò" un bimbo dalla culla.   

    Più  tutele per i soggetti indifesi quali i neonati con la sentenza n. 6220 del 18 febbraio 2011 della quinta sezione penale della Cassazione che Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" porta all'attenzione affinché costituisca da monito e contrasto contro un fenomeno, quale quello dei furti dalla culla, ancora diffuso nel Nostro Paese.

    Secondo la Suprema Corte sussiste il reato di sequestro di persona di cui all'art. 605 del codice penale anche quando la vittima sia un neonato che per ovvie ragioni non può opporre resistenza o ribellarsi. Inoltre, per gli ermellini tale reato può ben concorrere con quello previsto all'articolo 574 del suddetto codice, la sottrazione di minori, perché diversi sono i beni giuridici protetti dalle norme incriminatrici.

    Nel motivare la propria decisione la Corte parte dall'assunto secondo cui il bene giuridico che l'articolo 605 del C.p. intende tutelare non è la libertà di movimento in sé, ma la libertà fisica in quanto diritto fondamentale.

    Per il minore, e ancor più per il neonato, sono i genitori che decidono per lui: se dunque il bambino è sottratto contro il consenso di mamma e papà, deve ritenersi implicito il dissenso del piccolo.

    Nell'applicare tali principi al caso de quo i giudici di piazza Cavour hanno, infatti, confermato la custodia cautelare in carcere di una donna che fingendosi infermiera sottrasse un bambino dalla culla del reparto di ostetricia dell'ospedale di Nocera Inferiore (Salerno).

    Il giudice di legittimità ha ritenuto anche applicabile il reato di sottrazione di minore anche perchè il diverso bene giuridico tutelato dall'articolo 574 del Codice penale è il diritto dell'affidatario dell'incapace a mantenere quest'ultimo sotto la propria custodia.

    Lecce,  22 febbraio 2011

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA            
 
 
 
 

venerdì 18 febbraio 2011

Licenziamento illegittimo se la contestazione disciplinare viene fatta dopo 2 mesi

 CASSAZIONE

    Licenziamento illegittimo se la contestazione disciplinare viene fatta dopo 2 mesi 

    Sulla scia dell'orientamento prevalente, per non dire univoco, la Corte di Cassazione interviene sulla legittimità di un licenziamento comminato a distanza di due mesi dal fatto disciplinarmente rilevante.

    Secondo la sentenza n. 3043/2011 della sezione lavoro della Cassazione che Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" segnala, è illegittimo il licenziamento se la contestazione viene fatta dopo due mesi.

    La Corte ha così rigettato il ricorso di una cooperativa che aveva licenziato un socio lavoratore (dipendente), con una telegramma, contestando all'uomo un fatto avvenuto ad agosto.

    Il socio lavoratore era stato reintegrato dal Tribunale di Genova che aveva stabilito l'illegittimità del licenziamento.

    Gli ermellini, ritenuta applicabile la disciplina della tutela reale anche al socio lavoratore della cooperativa hanno applicato il principio secondo cui una contestazione a due mesi di distanza "dal fatto è ingiustificata e dev'essere considerata tardiva", anche in considerazione che "la giurisprudenza di legittimità individua la ratio del principio dell'immediatezza della contestazione disciplinare (desumibile dall'art. 7 dello statuto dei lavoratori) nell'obbligo di osservare le regole della buona fede e della correttezza nell'attuazione del rapporto di lavoro, e ritiene che non sia consentito all'imprenditore-datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l'incertezza sulla sorte del rapporto; nel licenziamento l'immediatezza della contestazione si configura dunque quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro".

    Lecce,  18 febbraio 2011

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA             

giovedì 17 febbraio 2011

Il danno biologico negli incidenti stradali

Con danno biologico si intende il danno che le vittime di un incidente stradale hanno avuto proprio attraverso un determinato tipo di sinistro stradale.

In questi casi è diritto delle vittime di ricevere un risarcimento in denaro per i danni subiti. Prendiamo per esempio l'incidente stradale Milano, una delle città più confusionaria, inquinate ed incasinate in ambito del traffico di tutta Italia.

Gli incidenti più comuni in città del genere sono il tamponamento tra auto e automezzi in generale, l'investimento di pedoni e ciclisti e lo schianto su muri e muretti in genere. Nel caso in questi tipi di incidenti siano coinvolte vittime, come i pedoni o altro, scatta la richiesta di risarcimento danni.

Nell'ambito del danno biologico esistono delle speciali tabelle risarcimento danno biologico che hanno l'obiettivo di definire il relativo "prezzo" per ogni tipo di danno che è stato rilevato attraverso delle speciali visite medico legali.

Esistono tuttavia dei casi in cui il colpevole del sinistro stradale non è assicurato. Cosa devono fare allora le vittime? Possono richiedere il normale risarcimento danni presso il fondo vittime della strada, un fondo istituito per legge con determinate norma specifiche, che può aiutare fino ad un massimale tutte le vittime di incidenti stradali non assicurati.

In tutti i casi chiedi l'aiuto legale gratuito dei professionisti del settore dell'infortunistica stradale come Zeta Infortunistica, direttamente su www.zetainfortunistica.it.

by Mattia Cattelan

martedì 15 febbraio 2011

Fumo passivo, diritto alla rendita per inabilità permanente


 Fumo passivo, diritto  alla rendita per inabilità  permanente anche se la malattia non rientra tra quelle individuate dalla legge come possibile conseguenza all'esposizione continuativa al fumo. Riconosciuto il diritto alla rendita permanente al lavoratore che ha subito il fumo passivo per decenni sul posto di lavoro.

    Quanti lavoratori sono stati o sono costretti a subire il fumo passivo in ufficio? E quanti si sono ammalati di patologie polmonari in conseguenza di anni ed anni di fumo delle sigarette altrui senza vedersi riconosciuto nemmeno il diritto ad un centesimo d'indennità per la malattia dovuta ad un ambiente di lavoro malsano e dannoso per la propria salute?

    Finalmente la sezione lavoro della Cassazione con la sentenza numero 3227 del 10 febbraio 2011 fa giustizia a tanti dipendenti ammalati di patologie polmonari conseguenti al fumo passivo subito nel corso degli anni nel proprio ufficio, ritenendo - sulla scorta dell'anamnesi lavorativa e patologica e dei più recenti studi epidemiologici – possibile la dimostrazione della stretta correlazione tra malattia polmonare e esposizione al fumo, anche se la patologia lamentata non è inserita nell'apposita tabella tra quelle tumorali individuate come possibili conseguenze dell'esposizione continuativa al fumo passivo.

     I giudici di piazza Cavour con l'importante sentenza che Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" porta in evidenza, hanno confermato la decisione della Corte di Appello di Catania che ha riconosciuto ad un dipendente comunale che aveva lavorato per cinque ore al giorno per oltre trenta anni in un locale non areato subendo il fumo passivo di un collega, il diritto alla costituzione di una rendita per inabilità permanente nella misura complessiva del 47 %. Come rilevato da un consulente tecnico d'ufficio esperto in pneumologia, il lavoratore risultava infatti affetto da asma bronchiale ed enfisema polmonare attribuibili, con elevato grado di probabilità, in base agli esami clinici ed epidemiologici, all'esposizione protratta per diversi decenni al fumo passivo.

    Alla sentenza d'appello aveva proposto ricorso per Cassazione l'INAIL (Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro) poiché l'ente aveva ritenuto non persuasiva l'attribuzione dell'indennizzabilità di una patologia professionale non rientrante tra quelle tumorali individuate per legge come possibili conseguenze dell'esposizione continuativa al fumo passivo. Peraltro, secondo l'ente previdenziale la broncopatia non doveva essere riconosciuta come malattia professionale in quanto il rischio dell'esposizione al fumo passivo in ambiente di lavoro è un rischio connesso al lavoro, ma non un rischio specifico della lavorazione.

    Gli ermellini, invece, ribaltando l'impostazione dell'INAIL, hanno applicato il principio secondo cui la tutela antinfortunistica del lavoratore si estende anche alle ipotesi di rischio specifico improprio che pur non insito nell'atto materiale della prestazione lavorativa riguarda situazioni ed attività strettamente connesse con la prestazione stessa.

    Secondo la Suprema Corte, infatti, i fattori di rischio in caso di malattie non rientranti tra quelle tumorali individuate per legge come possibili conseguenze dell'esposizione continuativa al fumo passivo, c.d. non tabellate, comprendono anche quelle situazioni di dannosità che seppur ricorrenti anche per attività non lavorative costituiscono però un rischio specifico per il lavoratore che svolge attività lavorativa assicurata.

    Lecce,  15 febbraio 2011                                           

                                                        Giovanni D'AGATA 


lunedì 14 febbraio 2011

Cassazione: autovelox va segnalato con congruo anticipo

Conferme dalla Cassazione: la postazione di accertamento elettronico dell'autovelox va segnalato a tutti con congruo anticipo 

    Arrivano conferme dalla Suprema Corte in merito al corretto utilizzo dell'autovelox: già dal 2005 la legge 160/07 aveva ribadito la necessità dell'"avvistabilità" delle postazioni di rilevamento che ai fini della sicurezza stradale dovevano comunque essere "preannunciate" agli utenti della strada a pena d'invalidità delle sanzioni elevate in spregio a tale dettame legislativo.

    La norma, a maggior ragione dev'essere rispettata anche quando gli enti accertatori, oseremmo dire furbescamente, installano le apparecchiature a ridosso delle intersezioni con altre strade e quindi devono essere indicate anche agli automobilisti provenienti da altre vie che s'immettono in quella sorvegliata. Così la sesta sezione civile della Cassazione con l'ordinanza 680/11, che Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" riporta. 

    Nella circostanza esaminata dai giudici di piazza Cavour è stato infatti, accolto con rinvio, il ricorso dell'automobilista multato sulla strada statale a ridosso dell'intersezione con quella provinciale.

    Secondo gli ermellini, intanto non basta un solo segnale sull'arteria di collegamento oggetto di rilevamento elettronico della velocità dei veicoli, avendo il presunto trasgressore indicato sin dal ricorso introduttivo in opposizione a sanzione amministrativa di non aver incontrato alcuna segnalazione della postazione dell'autovelox. Né, al contrario il verbale di contestazione, che pcome è noto fa fede fino a querela di falso, aveva attestato la sussistenza della specifica segnaletica che invece, in base alla citata disposizione del 2007, deve essere garantita in modo specifico, e ad un'adeguata distanza, fra l'intersezione tra le strade (nella specie la provinciale e la statale) e la postazione di accertamento elettronico.

    Non avendo dimostrato la presenza della segnaletica che preannuncia l'autovelox il cui onere della prova spetta all'ente accertatore, la sanzione al codice della strada per superamento del limite di velocità risulta evidentemente illegittima.

    Lecce,  14 febbraio 2011                                           

                                                        Giovanni D'AGATA 

giovedì 10 febbraio 2011

Le normative riguardo prevenzione e risarcimento danni da incidenti stradali

Nell'ambito degli incidenti stradali esistono normative che definiscono sia la prevenzione ai sinistri stessi sia cosa si deve fare dopo un incidente stradale.

La prevenzione è conosciuta da molte persone, anche se non viene fatta, tuttavia è quello che si da dopo un incidente stradale, per esempio per richiedere il giusto risarcimento da parte delle vittime, che non si conosce molto.

Nell'ambito del risarcimento danni il tutto inizia con una denuncia incidente stradale da parte delle forze dell'ordine quando l'incidente è bello grosso, in casi in cui l'incidente è leggero come un semplice tamponamento invece inizia tutto attraverso una normale constatazione amichevole.

Sia nel della denuncia che della constatazione amichevole, il tutto viene consegnato all'assicurazione del presunto colpevole che ha l'obiettivo di definire il risarcimento del danno subito dalle vittime.

Il danno subito si divide in due tipi, quello biologico che le persone coinvolte hanno ricevuto e quello materiale ricevuto dai mezzi coinvolti. Nel primo caso il danno viene definito attraverso delle perizie medico legale il cui obiettivo è quello di confrontare il danno con delle tabelle di risarcimento diretto per il danno biologico.

Per quanto riguarda i danni materiali invece, si occupa un carrozziere o meccanico in generale a definire cosa è stato danneggiato e quanto verrebbe la possibile riparazione. Dopodiché viene presentato il tutto all'assicurazione che presenterà tutti i dati relativi direttamente alla vittima o vittime in questione.

martedì 8 febbraio 2011

Alberi sul margine della strada troppo vicini alla carreggiata? La Cassazione penale di fatto dichiara fuorilegge migliaia di strade

  "Alberi sul margine della strada troppo vicini alla carreggiata? La Cassazione penale di fatto dichiara fuorilegge migliaia di strade" 

    Secondo la Suprema Corte che ha condannato un addetto dell'Anas i tronchi pericolosi, devono essere situati ad almeno sei metri dall'asfalto o in alternativa ci deve essere il guardrail

    Quante vittime della strada piangiamo ogni anno perché a bordo di veicoli terminano la propria corsa contro gli alberi posti sul margine della carreggiata? Sicuramente centinaia, per non parlare di tanti feriti, anche gravi perché finiscono contro tronchi molto spesso non riparati da protezioni.

      Con la recentissima sentenza della Cassazione penale che Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" porta all'attenzione, da oggi i proprietari o gestori delle strade dovranno osservare ancora maggiori attenzioni, perché se gli alberi si trovano entro sei metri su tutte le strade extraurbane, possono considerarsi fuorilegge.

    Gli ermellini, con la decisione in esame, partendo dall'analisi dell'articolo 26 comma 6 del regolamento d'attuazione del codice della strada secondo cui "la distanza dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare per impiantare alberi lateralmente alla strada, non può essere inferiore alla massima altezza raggiungibile per ciascun tipo di essenza a completamento del ciclo vegetativo e comunque non inferiore a 6 m" hanno ritenuto che tale norma avesse effetto anche retroattivo e si applicasse, quindi anche ai fusti arborei preesistenti dalla data di entrata in vigore del citato regolarmento ossia l'1 gennaio del 1993, superando così un equivoco durato ben 17 anni.

    Nel caso di specie, i giudici della Suprema Corte decidendo sulla condanna di un capo cantoniere dell'Anas di Foligno, hanno ritenuto necessaria ai fini del superamento della colpevolezza dell'addetto - condannato ad un anno e sei mesi - la messa in sicurezza, attraverso la predisposizione di "un idoneo guardrail nel tratto di strada dove si trovava la pianta" ed in particolare la statale "centrale umbra" che presenta ai margini una bellissima fila di alberi secolari ma che costituiscono un evidente pericolo per gli automobilisti.

    Lo "Sportello dei Diritti", ritiene che l'importante decisione, oltrechè rappresentare un evidente invito a tutti gli enti proprietari e gestori delle strade extraurbane a porre in essere tutte le più idonee cautele per la messa in sicurezza delle stesse attraverso la predisposizione dei guardrail nei tratti dove sono presenti alberi a meno di sei metri dalla carreggiata, apre la possibilità di poter procedere alle richieste di risarcimento danni per tutte le vittime e gli eredi di chi ha perso la propria vita o a riportato lesioni in conseguenza dello scontro con piante sul ciglio delle strade ove non sia intervenuta la prescrizione.

    Lecce,  8 febbraio 2011

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA 

domenica 6 febbraio 2011

Bisfenolo A: pubblicata la norma sulla Gazzetta ufficiale europea che vieta l'uso nei biberon. Dal 1 marzo stop alla produzione


 Bisfenolo A: pubblicata la norma sulla Gazzetta ufficiale europea che vieta l'uso nei biberon. Dal 1 marzo stop alla produzione 
 

    Prevenire è sempre meglio che curare. La frase di uno spot, ma anche un saggio consiglio per tutti e soprattutto per le giovani madri alle quali si rivolge la segnalazione che Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti", comunica in merito ad un allarme inserito nella Gazzetta ufficiale dell'Unione Europea del 29.1.11  (serie L, pagina 26, direttiva 2011/8/UE della Commissione del 28 gennaio 2011 che modifica la direttiva 2002/72/CE), ossia il divieto dell'impiego del Bisfenolo A nei biberon di plastica.

    Era da qualche mese che alcuni paesi occidentali ed in particolare la Francia, la Danimarca e  il Canada  avevano vietato l'impiego del BpA nei biberon, mentre gli Stati Uniti si erano già limitati ad individuare alcune restrizioni.

    L'esecutivo europeo, rappresentato dalla Commissione Europea, spesso attenta a questi problemi, rilevate le incertezze della ricerca scientifica sulla pericolosità dell'esposizione al Bisfenolo-A (BpA) per i bambini che utilizzano biberon di policarbonato, ha ritenuto opportuno replicare quanto già fatto dai paesi suindicati in virtù del principio di precauzione (introdotto dal regolamento CE n. 178/02 noto come General Food Law) che normalmente viene adottato nel caso in cui vengono ravvisati rischi per la salute dei consumatori  o incertezze scientifiche in merito.

    La Commissione ha appurato anche che l'impatto economico sulle società produttrici di biberon sarà assai limitato poche a seguito di un'analisi di mercato è stato verificato che sono già state avviate procedure volontarie di sostituzione del materiale da parte degli stessi fabbricanti.

    Secondo quanto stabilito dalla citata direttiva europea che entra in vigore oggi 1 febbraio 2011, quindi, tutti i biberon contenenti BpA presenti sul mercato dell'UE dovranno essere sostituiti entro la metà del 2011 ed gli Stati membri saranno obbligati nell'immediato ad adottare e pubblicare entro il 15 febbraio 2011 le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alle nuove regole. Inoltre, dal 1 marzo 2011 ne sarà vietata la fabbricazione, e a partire dall'1 giugno 2011 la commercializzazione e l'importazione nell'Unione di materiali e oggetti di materia plastica destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari non conformi ai dettami della direttiva.

    Lecce,  6 febbraio 2011

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA

giovedì 3 febbraio 2011

Cassazione, giro di vite contro aziende che sfruttano il lavoro nero

Cassazione, giro di vite contro l'azienda che sfrutta il lavoro nero

    Avanti con l'accertamento fiscale nei confronti delle aziende che sfruttano il lavoro nero poiché si presume un maggiore volume d'affari e di reddito 
 

    Anche il fisco all'attacco delle aziende che sfruttano il lavoro nero se verrà applicata con regolarità la sentenza n. 2593 del 3 febbraio 2011 della Cassazione, un ulteriore strumento indiretto nelle mani dello Stato - spiega Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" – per combattere questa piaga sociale.

    La suprema corte chiarisce che è possibile l'accertamento induttivo per Iva e Irap nei confronti dei datori di lavoro che sfruttano il lavoro nero applicando un principio logico elementare: corrispondere lo stipendio non contabilizzato più che essere assimilabile ad un costo è il segnale di una maggior volume d'affari e quindi di maggiore produttività.

    Nel caso di specie, la sezione tributaria ha rigettato il ricorso di un'artigiana pugliese proprietaria di una manifattura di biancheria, che aveva pagato in nero un dipendente, quindi, senza contabilizzarlo.

    A seguito di tanto, l'agenzia delle entrate aveva effettuato un accertamento per le maggiori Iva, Irap e Irpef dovute. In prima istanza la commissione provinciale tributaria cui si era rivolta aveva annullato l'atto impositivo. Ma in appello innanzi alla Commissione tributaria regionale della Puglia la situazione era stata già ribaltata e confermato l'atto di accertamento.

    La contribuente ha allora proposto ricorso per cassazione sostenendo che comunque il lavoratore in nero costituiva un costo deducibile. Gli ermellini hanno respinto integralmente il gravame, sostenendo che non solo il lavoratore non dichiarato non è un costo deducibile ma che tale circostanza fa senz'altro presumere un maggior reddito legato a un maggiore volume d'affari.

    Nella motivazione è possibile, infatti, leggere che: "Il divieto di doppia presunzione attiene esclusivamente alla correlazione di una presunzione semplice con altra presunzione semplice e non può ritenersi, invece, violato nel caso, quale quello di specie, in cui da un fatto noto (presenza di un dipendente non regolarmente assunto per il quale la stessa contribuente ha ammesso la corresponsione di una retribuzione non contabilizzata) si risale – peraltro in funzione di una presunzione legale, seppur relativa- a un fatto ignorato (maggiore redditività di impresa e non semplicemente maggior costi per retribuzioni, come ha prospettato in memoria la ricorrente)".

    Lecce,  03 febbraio 2011

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA   

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